Il Danno & la Beffa.

Ieri è tornata a trovarmi l’ Angoscia.

Ha bussato, ad intermittenza, quattro o cinque volte il campanello, prolungando il dito sull’ultimo. Non mi ha dato il tempo di reagire, che ha spalancato la porta e mi ha guardata di traverso. Con quell’aria da Madre Superiora, mi ha scrutata da capo a piedi, alzando gli occhi al celo una volta terminato lo scanner.

Il suo abito nero, lungo fino al limitare della caviglia, mi ricorda un monacale, peccato si contraddistingua con una profonda scollatura sul davanti e un bustino, fatto di un ferro filato sottilissimo e arrugginito, che racchiude il suo vitino da vespa, mettendo in risalto i seni prosperosi e i fianchi larghi.

Si è guardata in giro per casa con aria di sufficienza, sembra sempre voler analizzare la scena di un crimine in cerca di prove, ma nel frattempo smuoveva la sua lunga chioma, liscia, biondo scuro, lasciando cadere in terra quante più particelle del suo DNA.

Ha trascinato la poltrona buona dal soggiorno e si è messa a sedere dall’altro capo del tavolo.

«Allora?», alzo le spalle e abbasso gli occhi, mi sento sempre in ansia quando è qui, «Quando pensi di rimetterti?», insisteva imperterrita.

Ho sospirato e provato a spiegarmi, ma: la fame di ossigeno, il fuoco nei polmoni e il cervelletto che sfrigola; non sono una bella combinazione per pronunciare parole pacate.

Lei non ha esitato a farmi pesare il tempo battendo il piede, come lo scorrere di una clessidra, tap-tap-tap.

«E quindi?», incalzava, «Ho saputo che hai il Covid. Tutta sta storia?», continua incorcinado le braccia e facendo una smorfia di disprezzo, «Infondo è un influenza», ha sospirato, si è alzata e iniziando a camminare su e giù per la stanza ha aggiunto, «Che poi non capisco, te le prendi tutte tu?».

Provo a prendere fiato, cercando ancora le parole giuste, perché quelle domande, così, mi fanno sentire un burattino in loop; come se il mio burattinaio avesse intrecciato così tanto i fili da limitare i miei movimenti, al solo e unico movimento di spalle.

«Lo sai…», provo a spiegarmi, «Io avevo i miei problemi di fondo. Per questo mi limitavo…» . La osservò sott’occhio, si è fermata a guardare fuori dalla finestra, sta roteando gli occhi e trova una nuova smorfia da mostrarmi; ed ecco che torna la paura di esprimersi liberamente, perché lei è lì, pronta, sta aspettando la parola sbagliata per chiudicarmi ancora.

Io non gliela fornisco, lei non si arrende.

«E quindi? Ti sei limitata un anno intero: niente passeggiate, niente feste,  nemmeno il mare, solo lavoro, spesa e lavanderia. Per cosa?» . Torna a posare il suo grosso sedere sulla comoda poltrona patchwork, si toglie gli anfibi logori e allunga i piedi come a volersi metter comoda, nell’attesa di continuare la tortura. «Non hai vissuto, ti sei persa un anno di esperienze, per paura!», mi snobba ancora, «Anna la ricordi? Anche lei se l’è beccato, asintomatica, una paio di tamponi ed è risultata negativa».

La fisso inebetita, non capisco perché dovrei dare spiegazioni se lei non vuole ascoltarle, se non sa notare la palese differenza, tra: ciò che poteva fare e cosa sta facendo questo virus.

«Stai lì a tremare dalla paura per cosa? Oggi non si muore mica, come l’anno scorso a Bergamo?», insiste, finge di tirarmi su il morale ma continua a demolirmi.

La parola morire, mi fa sussultare, sembra essere l’alcol denaturato che infiamma ancora di più il tratto respiratorio, brucia troppo, dentro e fuori. Perché la paura di morire mi ha sfiorato la mente, mentre soffrivo per la prima volta come un pesciolino rosso fuori dall’acqua. Brucia ancora di più perché si muore e io lo so, e allora lì ri-trovo le parole.

«In realtà si muore anche oggi», ribatto d’un fiato, infervorata con gli occhi velati di lacrime, «E perdere qualcuno così, per poi non poterlo nemmeno salutare è straziante. Lo so, l’ho provato…».

Lei mi guarda, stranamente sorpresa, ma ancora beffarda. «Ah si?! E va beh saranno state patologie gravi», si ferma a guardarsi le unghie ben affilate, «Poi dovrebbe esserti d’esempio. Metti me, io ho vissuto al massimo e non l’ho preso».

Con tutta calma, riallaccia gli anfibi, alzandosi stende qualche piega del vestito e sfodera un sorriso dolce, palesemente finto, si avvicina e mi abbraccia di spalle.

Concludendo la sua opera magistrale, pugnalandomi alle spalle con miliardi di piccole spine affilate e ruginose.

«Riguardati», è l’ultima parola che sento, prima di chiudere la porta alle sue spalle.

Le Copertine delle mie Short Story, sono realizzate dal mio compagno: Arturo Squillace.

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