NESSUNO

«Io vado», dico facendo capolino nel loro studio, entrambi sono concentrati sui rispettivi lavori: lui ricalca con la china nera l’ultimo palazzo che ha progettato, invece, lei stende abbondanti pennellate colorate sulla tela. Distolgono lo sguardo, «Dove vai?», chiede mio padre, facendo scorrere i suoi piccoli occhiali a mezzaluna lungo il dorso del naso, faccio spallucce e loro annuiscono; «Divertiti e mi raccomando, fai attenzione», conclude mia madre mentre stampo a ognuno un bacio sulla fronte. Raccolgo le chiavi, il mio zainetto di jeans ed esco di casa.
Il viale che separa la nostra villetta dalla strada principale è sterrato e poco illuminato, ma per mia fortuna breve. Mi rifugio sotto il primo lampione per rollare una sigaretta e ne approfitto per cercare su Instagram un posto carino dove passare qualche ora, senza allontanarmi troppo. Questo è il terzo trasloco dall’inizio dell’anno e siamo solo a maggio, ogni volta che cambiamo città è sempre la stessa storia: non conosco nessuno e la mia timidezza non aiuta. Per questo, cerco un bel posto e mi accontento dell’amicizia della musica.
L’ho trovato!
Secondo Google Maps devo camminare per un paio di chilometri, quindi infilo le cuffie, accendo la sigaretta e intraprendono il mio viaggio; un piccolo ponte sovrasta un fiume puzzolente, la strada è piena di buche e squarci nell’asfalto, passo sotto un cavalcavia buio e solo allora intravedo qualche luce del centro città. Sul tragitto trovo una piccola bottega caratteristica, dove i prodotti sono ammassati negli scaffali e sistemati ovunque ci sia un centimetro di spazio; il cassiere, un uomo anziano, guarda torvo il mi rifornimento: tre birre e un pacco di Fonzie.
«Sei arrivato. La tua destinazione è di fronte a te», gracchia la signorina delle mappe attraverso le auricolari, il cartello su una delle entrare recita “Parco Fonte Salutare”.
Entro in quella che sembra una villetta comunale mal circoscritta, mi trovo dinanzi a un enorme fontana popolata di piccoli pesci rossi e bianchi, che scansano buste di patatine e lattina vuote; a sinistra ci sono delle giostrine in legno malconce occupate da adolescenti anziché bambini; invece sulla destra ci sono diverse panchine piantate in una ghiaia grossolana, fastidiosa sotto le suole.
Proseguo alla ricerca di un posto migliore.
Camminando noto una strana cupola, i suoi archi metallici sostengono quello che sembra un vetro spesso, che a sua volta, ricopre un piccolo anfiteatro dove le sedute sono formate da tre grossi gradini di pietra. Le gradinate sono tutte occupate, ci sono ragazzi di tutte le età raggruppati in diversi spazi, un agglomerato di stili e tendenze: c’è chi ascolta musica da una cassa, chi suona una chitarra rincorrendo le note già nell’aria, un gruppetto si divide uno spinello, mentre quattro ragazzine parlano sottovoce sorseggiando corona.
Non mi sento a mio agio in queste situazioni, per quanto voglia sforzarmi non sono estroversa. Percorro a passo svelto la diagonale che divide l’anfiteatro a metà, salgo gli scalini fino in cima e trovo riparo oltre la cupola, c’è un muretto di fronte a una fontanina, che separa il parco dal parcheggio.
Da qui ho una visuale su tutto il parco, che quasi diventa magico quando “anima lattina” si impossessa del mio I-pod, stappo una Tennent’s e mi guardo intorno.
Spesso provo a immaginare le vite degli altri, di quelli che osservo mentre le note mi estraniano dal mondo, come un regista di documentari che fa le domande e si dà le risposte.
Dopo due birre, cinque sigarette e almeno una decina di canzoni, l’I-pod mi abbandona, scavo nello zaino alla ricerca del Power Bank, ma nulla. Sono costretta a togliermi le cuffie e ascoltare il mondo reale.
L’anfiteatro sotto di me è quasi vuoto, sono rimasti solo cinque o sei ragazzi che cantano a squarciagola l’ultimo pezzo di Ernia, brindando come fosse l’ultimo dell’anno. Sorrido nel constatare come la musica riesca a connettere tra loro persone apparentemente diverse, mi diverto ad ascoltare le loro opinioni sul testo che stanno analizzando, minuziosamente.

A un tratto il mio orecchio capta qualcosa, mi volto di scatto a sinistra, dove, tra il parcheggio e il parco, c’è una zona poco illuminata, ho la visuale occupata, a tratti, dalle piante, quando intravedo due figure nere: una alta e possente, l’altra piccola e gracile.
«Dove cazzo vai? Torna qua!», urla la grossa tirando la piccola per un braccio, il suo tono, cupo e profondo, fa pensare a un uomo; «Si propr na criatur», continua insistente bloccandole la strada. «Voglio andare a casa», ribatte la voce cinguettante della figura più piccola, «Ne riparliamo.Voglio stare da sola», insiste provando a divincolarsi dalla presa.
Ci riesce, fa pochi passi e uscendo dall’ombra viene illuminata da un lampione, è una ragazza dai lineamenti dolci e ha dei capelli castani ricchissimi e lunghi fino alle natiche.
Tra i ragazzi dell’anfiteatro cala il silenzio, risalgono le gradinate per capire da dove provengono i toni accessi che li hanno interrotti, «Wagliu che sta succedendo?», chiede l’ultimo in coda, si alza sulle punte per provare a sbirciare; «È “Ciccio Capa Storta”. Facciamoci i fatti nostri», taglia corto uno di loro tornando indietro. Solo due restano a guardare, leggo nei loro occhi il dubbio che si instilla, cosa fare: intervenire o chiudere gli occhi?
Il mio sangue inizia a ribollire, insieme alla rabbia che mi porto sempre dentro; ho poco più di vent’anni e ho già odiato il genere umano, buona parte di esso è una merda, ma nonostante tutto spero sempre che qualcosa cambi, che qualcuno si salvi aiutando qualcun altro, restando puntualmente delusa.
L’Orco esce allo scoperto, è alto, ma meno grande di quel che sembrava, ha la pelle molto chiara e dei capelli biondo cenere raccolti in un codino; le afferra entrambi i polsi e la tira a sé, «Ti accompagno, sali in macchina», lei cerca di liberarsi dalla stretta, lo implora di lasciarla andare, ma lui di tutta risposta le dà uno schiaffo e la afferra per i capelli.
Non ci vedo più, mi alzo repentina e gli corro incontro, «Lasciala stare!», urlo a gran voce, «Toglile le mani di dosso», insisto mentre lui la trascina verso l’auto. «Che cazzo vuoi?», chiede con tono ancora più alterato, «Fatti gli affari tuoi», dice lasciando la presa sui capelli per allontanarmi con un gesto della mano.
Ormai sono vicina, mi frappongono tra di loro e cerco di farlo ragionare, «Qualsiasi cosa abbia fatto, tu non hai il diritto di comportarti così», rincalzo con tono sicuro, provando a farle da scudo.
Lui si avvicina al mio viso, puntandomi un dito accusatorio contro, ha gli occhi iniettati di sangue e li rende due piccole fessure, corrugando la fronte e stringendo la mascella, mi batte l’indice sullo sterno a intermittenza; «Tu chi sì?», picchietta un colpo, «Non sei nessuno», ne assesta un altro, «Nessuno mi dice cosa posso e non posso fare», sussurra a denti stretti a un palmo dal mio naso. «Io no di sicuro, ma la polizia sì», lo vedo tentennare per un attimo e cerco di metterlo alle strette, «Ti conviene andare via», rincalzo a muso duro, mantenendo lo sguardo fisso su di lui e le abbraccia aperte per proteggere lei.
«Le guardie non mi spaventano», ribatte beffardo, «Siete due puttanelle e non voglio perdere tempo con voi», così dicendo gira i tacchi e si dirige alla macchina, sale e va via lasciando sull’asfalto buona parte dei pneumatici.
Faccio un respiro profondo, mi volto e lei è lì in lacrime, «Stai bene?», chiedo guardando quelle cinque dita impresse su metà del suo volto, lei accenna un si con la testa, ma i suoi occhi la smentiscono, «Vieni, andiamo a prendere un po d’acqua», concludo portandola verso la fontanella. La faccio accomodare sul muretto, riempio una bottiglia vuota con dell’acqua e gliela porgo, «Posso?», chiedo indicando i polsi, lei fa un cenno di consenso e le peggio dei fazzoletti bagnati su entrambi, «Se vuoi, questo, puoi poggiarlo dietro al collo. Ti sentirai meglio». Lei fa come gli ho suggerito, le porgo un altro fazzoletto con cui si tampona il viso, «Grazie», sussurra a mezza voce, «Anche se non capisco perché l’hai fatto… Nemmeno mi conosci». La guardo e rivedo in lei una parte di me, «Perché era giusto farlo», rispondo con tono sommesso, «Non devi ringraziarmi. Dovrebbe essere normale difendere qualcuno, o qualcosa, che subisce un’ingiustizia». Le porgo la mia ultima birra, accetta, manda giù un lungo sorso e me la ripassa, «Piacere Tamara», asserisce allungando una mano. Non le rispondo subito, distratta dal livido che sta prendendo colore sui suoi polsi, è una situazione così familiare da rattristarmi; trattengo le lacrime e le stingo la mano, «Piacere mio, Anna».

Ci sorridiamo per una frazione di secondo, ma ci avviliamo poco dopo, entrambe riconosciamo nell’altra una ferita ancora aperta; mi offre una sigaretta, accetto e cadiamo in uno strano silenzio imbarazzante, ci guardiamo le punte delle scarpe e giochiamo a spostare la ghiaia come se fossimo in un giardino zen.

«È successo anche a te, vero?», domanda a bruciapelo continuando a guardare in terra, mando giù un sorso di birra e biascico un sì; Tamara posa il suo sguardo su di me, «Fidanzato?», mando giù un altro sorso e faccio di si con la testa, «Ti hanno aiutata?». Butto giù, tutto d’un fiato, le ultime tre dita di birra e rispondo muovendo il capo da destra a sinistra, «Nessuno», aggiungo con una vena d’amarezza. Lei sgrana gli occhi e mi guarda perplessa, sta cercando le parole giuste, quando viene distratta dal clacson di un motorino che si accosta al nostro muretto, «Perché sei venuto in moto? Ti ho detto di venire in auto», sbuffa avvicinandosi al ragazzo in sella. «Quante storie. Sono venuto», borbotta mettendo il motorino sul cavalletto, «Vogliamo andare?», chiede impaziente, «Tra un paio d’ore devo andare a lavorare». Lei lo guarda torvo, poi posa lo sguardo su di me, le pieghe sulla sua fronte esprimono una preoccupazione tangibile, abbasso lo sguardo imbarazzata; li sento discutere sottovoce, ma parlano così fitto da non farsi capire.

«Anna», dice tornando al mio fianco, «Lui è mio fratello Antonio», dichiara alzando gli occhi al celo, «È un cretino! Gli avevo detto di venire in auto, voglio accompagnarti», afferma imbarazzata, «Puoi aspettare? Non abitiamo molto lontano, accompagna me e torna a prenderti». Le sorrido, sorpresa da un gesto così premuroso, «Non ti preoccupare, anche io non vivo lontano, in dieci minuti sarò a casa», mentre parlo lei mi contraddice muovendo la testa per dire no. «Non mi farai dormire», aggiunge esasperata, «Ti prego, aspetta, torna subito», immerge metà della testa nella sua Birkin di pelle nera, scarabocchia su un biglietto del treno il suo numero e me lo porge, «Ti devo molto. Chiamami, ok?», muovo la testa su e giù e vengo sbalordita dal gesto che segue. Mi abbraccia forte, continuando a ringraziarmi sottovoce, ricambio la stretta con la stessa intensità, quando sciogliamo l’abbraccio abbiamo entrambe gli occhi velati. Ci salutiamo più volte, con mani svolazzanti e la promessa che avrei aspettato lì il ritorno di Antonio.

Il gruppetto rimasto nell’anfiteatro mi tiene compagnia, intonano a modo loro “Anna verrà”, la canticchio anch’io mentre rollo una sigaretta per ingannare l’attesa, faccio per accenderla quando qualcosa mi colpisce dietro la testa. L’urto è stato così forte che per poco non finisco in terra, mi paro allungando le mani, cadendo con le ginocchia spoglie e i palmi aperti sulla ghiaia. «Che ti dicevo?», sento alle mie spalle, «L’ho stesa con un solo schiaffo sul cervelletto», mi volto e riconosco subito l’ombra dell’orco che si staglia su di me; non è solo, si è portato, come rinforzo, un omone grassoccio che sembra un lottatore di sumo, è al suo fianco e sghignazza. Lo fulmino con lo sguardo, la rabbia rimonta e mi dà la forza di rialzarmi, nonostante senta un dolore così forte alla nuca, sembra che qualcuno ci abbia infilato dentro un tizzone ardente. «Che vuoi fare?», domanda prendendomi per i capelli, «Non fai più la paladina della giustizia?», mi tira su portando il mio viso all’altezza del suo. «Tu sei pazzo!», ribatto contorcendomi, ma la sua presa è così forte che, a ogni minimo movimento, sembra potermi strappare i capelli dalla radice; «Lasciami andare», urlo assestandogli un pugno nel fianco. Molla la presa, mi volto per scappare quando mi afferra la camicia e tirando la lacera in più punti, scaraventandomi a terra, «Dove credi di andare stronza?», non faccio in tempo a rialzarmi che è a cavalcioni sul mio ventre, «Sei una puttanella ingenua. Pensavi di farla franca?», con una mano mi preme la testa nella ghiaia e con l’altra mi tiene i polsi. «Sei un verme codardo!», urlo provando a divincolarmi, «Lasciami stare, scendi», continuo a sbraitare come un’ossessa, per quanto mi sforzi il suo peso è troppo per me, «Levati di dosso e fammi vedere quanto vali!», ringhio. Lui mi guarda perplesso, si ferma per un istante, per poi scoppiare in una risata malefica, «E perché mai? Questa è la mia posizione preferita» dice leccandosi le labbra, «È così che prendo le zoccole come te, così glielo infilo tutto e le tappo la bocca». Le sue ultime parole mi spiazzano, resto muta mentre lui ride e mima un pompino muovendomi la testa; il sangue mi arriva al cervello, inizio a urlargli le peggiori parole che conosco e, muovendomi come un’anguilla indemoniata, riesco a liberarmi le mani, con una gli stringo la gola, distraendolo mentre infilo l’altra tra le sue gambe per stringergli i testicoli in una morsa.

Le sue grida richiamano l’attenzione del lottatore di sumo, corre come meglio può verso di noi, l’orco in preda al dolore mi lascia libera di ribaltare la situazione, mi alzo ascoltando le sue imprecazioni, «Ma che cazzo fai? Prendila!», comanda al suo rinforzo, che si avvicina a me titubante. «Non ti conviene», dico guardandolo fisso negli occhi e frugando alla ceca nello zaino, l’orco si alza tenendosi ben stretti i gioielli ancora doloranti, barcolla venendomi incontro, «Basta! Lasciami stare», urlo cercando di prendere tempo mentre indietreggio. Mi guardo intorno, non c’è anima viva oltre noi, anche i ragazzi dell’anfiteatro non ci sono più, se la saranno svignata alle prime grida; e nonostante le mie urla nessuna luce ha illuminato i balconi dei palazzi vicini. «Che c’è? Ti sei stancata?», chiede ironico l’orco continuando ad avanzare, «Non abbiamo nemmeno iniziato!», guarda l’amico, si fanno un gesto d’intesa e continuano a marciare. «Ah!», asserisco soddisfatta, «Allora iniziamo», mi fermo, non indietreggio nonostante loro si avvicinino sempre più, sorridono soddisfatti, sono a meno di un metro da me quando sono io a sorridere beffarda. Estraggo dalla zaino il deodorante spray e dalla tasca sinistra degli short una clipper, si fermano e si guardano incerti, «Voglio darvi un’ultima possibilità», dico con tono pacato, «Andate via ora, oppure fate un altro passo e ne subirete le conseguenze», l’orco si gira verso il complice e si ticchetta una tempia con due dita, lui di tutta risposta ride e prova ad avanzare. Gli do il tempo di portare avanti un solo piede, premo sulla testina morbida del deodorante e imitando l’urlo di Xena, faccio partire la fiamma, che si allunga e ondeggia a seconda dei miei movimenti, da sinistra verso destra e viceversa. Impaurito il lottatore si protegge il viso incrociando le braccia, ma vedo prendere fuoco i peli che le ricoprono e una parte della suo barbone nero, il dolore gli fa prima emanare un gridolino e poi portar giù dal calendario alcuni santi, mentre si rotola nella ghiaia. L’orco indietreggia, inciampa nei suoi stessi piedi e finisce in terra, gli vado incontro abbassando la fiamma verso la suola delle scarpe, questa inizia fare delle bollicine, lui impreca, si gira a pancia in giù, striscia per un po’ e prova a rialzarsi, quando lo fa la gomma si fonde con le pietre grigie e riprende ad insultarmi. Mi fermo per un istante, ma ho paura che possano ancora contro attaccare, li guardo con aria minacciosa e torno a sparare fuoco, l’orco aiuta il lottatore ad alzarsi e insieme, maledendo me e tutti i miei antenati, vanno via a passo svelto.

Tiro un gran sospiro di sollievo e mi lascio andare a terra, esausta.

Trasalisco non appena vedo avvicinarsi un’ombra, ma questa alza le mani in segno di resa, «Sono Antonio», afferma avvicinandosi, mi allunga una mano la accetto e mi rialzo, «Mi spiace», sussurra mortificato, «Tamara mi aveva detto di venire subito, ma abbiamo discusso sotto casa», bofonchia a denti stretti, sembra davvero arrabbiato. «Non preoccuparti», così dicendo mi dirigo alla fontanella per rinfrescarmi: bagno i polsi, il collo e alla fine anche il viso, dimenticando per un attimo il trucco, che non è waterproof. «Non ricordavo che Xena avesse un trucco stile panda», dice cercando di nascondere un sorriso, ma lo strappa anche a me, si siede al mio fianco sul muretto, «Sono davvero mortificato Anna», aggiunge torturandosi le mani, «Le avevo detto di non uscire con quel cretino», lo guardo astioso, «Non fraintendermi non è colpa sua», prova a spiegare, «Solo che…», sembra non trovare le parole. «Ho capito cosa vuoi dire, c’erano i segnali», lui fa cenno di si con la testa, «Ma io ho capito com’è tua sorella, è come me. Cerchiamo il buono in tutti, anche in chi non ce l’ha». «Non capisco», si alza e si guarda intorno, «Io sentivo le urla, prima di svoltare nel vicolo», dice camminando avanti e indietro su una retta immaginaria, «Come hanno fatto a non sentirti? C’erano i ragazzi qui, neanche loro ti hanno aiutata?», chiede incredulo. Gli ripeto le parole dette a Tamara meno di un’ora fa, «Nessuno».

Le Copertine delle mie Short Story, sono realizzate dal mio compagno: Arturo Squillace.

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